Un confronto impari
Un confronto impari
di Anna Foti

27/11/2007 - Aggiornare le Convenzioni di Ginevra del 1949, con particolare riferimento alla Terza relativa al trattamento dei prigionieri di guerra e alla definizione di “legittimo combattente”; implementare i poteri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ridisegnare il concetto di legittima difesa di ogni singolo Stato da un attacco.
In altre parole abbassare gli standard internazionali di tutela dei diritti umani in ragione della prioritaria esigenza di sicurezza, ritenendo incompatibili le garanzie riconosciute ai prigionieri di guerra con l’emergenza terrorismo; conferire al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il potere di decidere le sorti del mondo e la prerogativa assoluta di difenderlo dal terrorismo; allargare il concetto di legittima difesa del singolo Stato anche ad ipotesi di attacco propugnato non da un nemico identificabile secondo i canoni tradizionali (divisa, appartenenza ad un esercito di Stato) e ad ipotesi di attacco anche solo sospettato e a cui reagire con un intervento armato preventivo e anticipatore. Sembrano ormai queste le linee direttrici seguite a livello internazionale per fronteggiare l’emergenza terrorismo. Illustri giuristi, tra cui il Magnifico Rettore di Messina, prof. Francesco Tomasello, Luigi Condorelli dell’Università di Firenze, Attila Tanzi dell’Università di Bologna, Pasquale De Sena dell’Università di Napoli e Marcella Distefano associata di Diritto Internazionale nell’Università padrona di casa, a confronto nell’aula del Rettorato dell’Università Messinese hanno, infatti, tracciato questo quadro piuttosto allarmante che mette in seria discussione le premesse tracciate all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando il mondo intero aborriva l’olocausto, le persecuzioni e la guerra e si richiamava a concetti quanto mai calpestati quali la dignità e il rispetto dell’uomo. Il sistema legislativo internazionale sarebbe impreparato e inadeguato per fronteggiare la lotta al fenomeno terroristico. Ecco perché la gestione di questo momento storico avrebbe assunto un carattere irrimediabilmente emergenziale. Se questo è lo stato dei fatti, le conclusioni che ciascuno potrebbe trarre non riservano spazio a molte alternative. Una la priorità: garantire sicurezza. Due le conseguenze: ripristinare il valore della sovranità nazionale e frammentare gli standard di protezione dei diritti umani delegittimandoli e tacciandoli di inadeguatezza laddove si pongano come baluardo invalicabile della dignità umana e dello Stato di Diritto. Dunque restituire maggiore spazio a quelle stesse sovranità nazionali, che nel secondo dopoguerra si era ritenuto di dovere collocare dentro un sistema sopranazionale alla luce degli orrori causati, e comprimere i diritti individuali essenziali, quali l’integrità, il giusto processo e la presunzione di innocenza, conquiste faticose e preziose per i sacrifici che le hanno determinate. Siamo ad un nuovo bivio della civiltà giuridica, le cui fondamenta sono minate dalla sola ammissibilità del concetto di presunto terrorista e dalla possibilità di non riconoscere i diritti essenziali della persona sulla sola base di un sospetto. Presumere consente di superare la difficoltà di attendere una soglia sufficiente di prove per potere procedere a carico di un individuo. Adesso si intende fare di questa la regola e non più l’eccezione di un sistema che si sta rinnegando per eventi gravi, gravissimi, ma pur sempre contingenti. Chi è più al sicuro quando la ricerca della verità si serve di liste nere che violano principi giuridici basilari. Quando un’attività di accertamento dei fatti e di reperimento di informazioni non disdegna l’uso della tortura. Quando la risposta elaborata a livello internazionale per garantire la nostra sicurezza non è in grado di essere determinata se non in termini emergenziali. E mentre si afferma ormai il principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, anche sotto il profilo dell’attività dei giudici e della efficacia delle sentenze, a questi stessi giudici nazionali l’arduo compito di affermare valori e principi in procinto di essere delegittimati. Un inquietante vortice, quello innestato dal crollo delle Torri Gemelle, quell’11 settembre 2001. Quel giorno tutti siamo stati americani, vicini ad un paese colpito al cuore, a quelle famiglie spezzate. Reazione sacrosanta! Ma viene da chiedersi perché il medesimo cordoglio non avvicini popoli e paesi per ragionare nuovi termini per proseguire la convivenza, la medesima indignazione non imperversi ogniqualvolta vi siano vittime innocenti. Oggi il mondo ne è pieno. Forse esistono vittime di serie A e vittime di serie B. Ma questa miopia di fondo ci riporterà indietro, come già sta avvenendo. Che fare allora? Forse non cedere alla tentazione di soluzioni estreme che semineranno altre ingiustizie e non garantiranno la pace. Non ostinarsi a credere che la soluzione sia vedere tutto bianco o tutto il nero, tralasciando le infinite sfumature nelle cui pieghe troppo spesso risiedono la saggezza e la giustezza. Tenere a mente che non si tratta di in conflitto tra la dignità umana e la sicurezza, valori assolutamente indivisibili, ma si tratta di preservare la libertà dalla violenza e la giustizia dalla brutalità e dall’arbitrio. Ma sempre e ovunque, non solo in Occidente. Questa la reale sfida di cui si continua ad ignorare la complessità e la trasversalità e che si intenderebbe vincere piegando la libertà a logiche di violenza. Rimane da chiedersi se non esista davvero un’alternativa a questo strappo lacerante e irreversibile. Purtroppo pare che i “grandi” non l’abbiano trovata.
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