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Redazionale


di Enrica Tancioni
20/11/2007 - Televisione pubblica contro televisione privata. Questo riserva l’attuale situazione italiana. E nel futuro? Le battaglie all’ultimo telespettatore domineranno ancora? Sicuramente sì. Perché quello che conta è tenere incollato alla poltrona l’italiano medio. Come? Trasmettendo reality-show e fiction. Non importa la qualità del programma, ma la quantità di telespettatori. Eppure le reti sono tante.
Dovrebbero avere una programmazione variegata rivolta a diversi target di pubblico. Ma questo non accade. Perché se un programma è vincente, viene proposto. Sempre e comunque.
Per fortuna esiste il pluralismo! Ma viene rispettato?
Andiamo con ordine. La televisione arriva in Italia nel 1954. Già nel ’52 la RAI ottiene la licenza per trasmettere. La situazione rimane invariata fino agli anni settanta. È il 1976 e la Corte costituzionale, con la sentenza 202, “apre” le frequenze radio-televisive anche alle emittenti private.
Tutto ha inizio con una serie di denunce. Le regioni adriatiche e “francesi” captano e trasmettono programmi stranieri. Questo può essere sanzionabile? Si può evitare di ricevere emittenti straniere?
Ovviamente no. Si pongono così le basi per una televisione mista.
Purtroppo per oltre 14 anni si opera nel campo senza regole. La Tv fa gola a molti, specialmente ai grandi imprenditori che hanno compreso la potenzialità del mezzo. Si assiste a una folle “corsa all’etere”. La prima regolamentazione giunge nel 1981. La Corte costituzionale permette la creazione di un sistema misto. L’antagonista del servizio pubblico è Silvio Berlusconi, che nel 1984 crea la Finivest. Organizzato come un network, il servizio privato distingue canali e argomenti.
L’obiettivo è creare programmi rivolti a target precisi, per ridurre al minimo le forme di concorrenza interna. Nasce il famoso duopolio tra RAI e Fininvest. Un duopolio caratterizzato da concorrenza, spesso sleale, e dalla presenza di soli due soggetti. Mancano, infatti, le regole che tutelino l’informazione e la comunicazione.
Si dovrà aspettare il 1990 per avere la prima legge: la Mammì. La nuova norma avrebbe dovuto regolamentare e riorganizzare il sistema radiotelevisivo italiano. Per garantire il pluralismo interno ed esterno (rispettivamente apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose; e ingresso nel mercato di diversi soggetti), la legge fissa a tre il numero massimo di reti possedute da uno stesso soggetto; stabilisce i limiti della pubblicità e istituisce il Garante per la radiodiffusione e l’editoria, con compiti di controllo. Insomma un singolo soggetto non può superare il 25% del numero di reti nazionali.
Nel 1994 la Corte costituzionale stabilisce l’illegittimità della legge. La ripartizione delle frequenze non è adeguata. Non bisogna dimenticare che questi sono gli anni dell’entrata in politica di Berlusconi, che usa le proprie emittenti per sponsorizzare la sua candidatura.Viene meno il principio dell’artico 21 della Costituzione.
Ancora una volta nessuno interviene. Così nel 1997 viene varata la legge Maccanico, definita più volta “legge fotografia” o “legge polaroid”. Se da una parte stabilisce il tetto massimo del numero di reti (20%), dall’altro non dispone il cambiamento della situazione. La televisione rimane cioè invasa da soli due soggetti. La legge inoltre stabilisce il passaggio di Rete4 sul satellite e la trasformazione di Rai3 in canale di servizio. Per riassegnare la frequenza del canale di Berlusconi, si indice una gara d’appalto. Vince Francesco Di Stefano che propone il suo Europa7. La rete non andrà mai in onda.
La legge ha un unico grande neo: è una norma transitoria sine die. Non è cioè destinata a risolvere la guerra di frequenze. Rete4 continua a essere trasmessa e Rai3 vende spazi pubblicitari. Tutto rimane nelle stesse condizioni. Tanto il polo pubblico, quanto quello privato continuano a essere fuori tetto.
Devono essere messi in regola. Interviene ancora una volta la Corte costituzionale che stabilisce una scadenza: la fine del 1998. Ma viene spostata a dicembre 2003. Per correre ai ripari il governo vara un’altra legge: la Gasparri. Approvata alle Camere raggiunge l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Ma accade qualcosa di imprevisto. Il Presidente decide di non firmare. La legge viene così rimandata alle Camere. Ma la scadenza si avvicina e bisogna fare qualcosa. Anche in fretta. Perché bisogna spostare la proroga. Rete4 rischia di sparire. Il governo allora vara un decreto legge, grazie al quale la scadenza slitta al 30 aprile 2004.
Ma il 29 aprile 2004 viene approvata la nuova legge. Si può parlare di legittimità della norma?
Sicuramente no. Il governo non ha rispettato il concetto di pluralismo. Lo dimostra l’istituzione del Sic (Sistema integrato delle Comunicazioni). Secondo la nuova norma il tetto massimo da non superare è il 20%. Peccato che si riferisca a tutti i settori della comunicazione.
Insomma un unico soggetto può avere numerose reti televisive, giornali, case editrici, emittenti radiofoniche, siti internet, ecc. Perché il 20% del numero totale di prodotti della comunicazione è difficile da superare. Quasi impossibile.
Non a caso, la norma viene varata durante il governo Berlusconi, uno dei soggetti coinvolti nella disputa delle frequenze. Grazie al decreto legge la sua rete è salva. Può continuare a trasmettere. E senza problemi! D’altronde il proprietario ci sa fare. Con una serie di proroghe e decreti è riuscito a “monopolizzare” le frequenze radiotelevisive. Cosa importa se l’Unione Europea è intervenuta per ricevere chiarimenti sulle infrazioni della legge Gasparri. Mediaset sta rafforzando la propria posizione!
Purtroppo la legge presenta altri limiti. Incentiva la pubblicità televisiva a scapito di quella sulla stampa; non fissa nessuna data di scadenza per la realizzazione del digitale terrestre. Forse solo nel 2012 la televisione italiana passerà dall’analogico al digitale. In fondo, siamo sempre in Italia. Il paese delle meraviglie!
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