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Redazionale


di Elisabetta Viti
13/11/2007 - Rogliano, nel cosentino, rivendica, al ritmo della taranta e di antichi canti popolari, il suo amore per la terra e il suo passato di briganti. Perché brigantaggio è qui – dove scorre il Savuto e la coltura della vite ha tradizioni antichissime quanto quel nome, Enotria o terra del vino, che non a caso fu dato a tutta la regione – sinonimo della fierezza dei poveri. Quella che, imponderabile, emerge tutte le volte che, Berto docet, i reietti sentono "pesare come una vergogna l’inerzia delle braccia senza lavoro".
Proprio l’autore de Il brigante – attraverso il lascito di pagine significative a lungo ripudiate dalla critica – delinea la complessità di un fenomeno, il brigantaggio, con cui ancora per certi versi la Calabria viene identificata in maniera distorta e che eccede il sensazionalismo delle tante leggende particolari. I briganti sono stati, di volta in volta, sentinella del malcontento popolare e alfieri di una rivolta che è riuscita, tra verità e mitologie, strumentalizzazioni dall’alto e feroci repressioni, ad imporre a forza la Calabria, fuori dal suo atavico isolamento, all’attenzione della nazione.
Anzi, quando, per la prima volta, fanno il loro ingresso nominale nella storia, non esiste ancora una nazione, ma le diverse repubbliche giacobine che coronano tra ’700 e ’800 la campagna napoleonica in Italia: “briganti” sono detti dai francesi tutti coloro che si oppongono al loro regime. Perché, oltre i sacri principi della rivoluzione, è il vizio dell’Antien Regime che sotto mentite spoglie si riaffaccia e sono sempre i soliti, gli sfruttati del lavoro dei campi e i nullatenenti, a pagare. Con nuove tasse e con leggi che, se apparentemente bandivano la feudalità, di fatto favorirono, attraverso l’alienazione dei beni ecclesiastici, il potere di chi poteva acquistarli e l’estensione del latifondo.
L’esercito della controrivoluzione sanfedista trova tra gli scontenti del nuovo potere i numeri necessari per riportare le due Sicilie sotto il controllo dei Borboni, come la spedizione garibaldina per sottrarle loro circa sessant’anni dopo. In entrambi i casi, questi eserciti improvvisati sorti dalla disperazione furono presto abbandonati, dopo i primi successi, proprio da chi aveva preso l’iniziativa della loro sollevazione. Così, sull’altare della Patria, furono sacrificati, nel sangue di tante giubbe rosse calabresi, gli ideali mazziniani ostili ad una politica di mera annessione del Meridione all’Italia sotto l’egida piemontese e favorevoli ad una soluzione democratica che avrebbe dato legittimo seguito ai movimenti contadini per la terra. Da questa delusione nacque più specificamente quel fenomeno che la storiografia ufficiale definì “brigantaggio” e in cui confluirono le legittime aspirazioni delle classi subalterne e rurali, sempre più espoliate dalla politica fiscale del nuovo Stato, dal reclutamento di forza lavoro per la leva e, in particolare, dalla borghesia agraria meridionale che si accaparrò le terre demaniali e quelle dei contadini poveri, privi di capitali per coltivarle. Fu con l’aiuto dei latifondisti del Sud, in sinergia con la borghesia industriale del Settentrione, che lo Stato ebbe la meglio sulle lotte contadine e migliaia di briganti - artigiani, operai, contadini ribelli alla prepotenza e al sopruso – furono fucilati o tradotti in carcere.
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