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Redazionale


di Elisabetta Viti
06/11/2007 - E’il volto per così dire “maturo” della precarietà sul lavoro: quello di chi si trova a fare i conti con la ricerca di un posto, se non proprio fisso almeno dignitoso, quando aveva già dato per scontato l’agiatezza del proprio status quo.
E’ il caso di Michele, il protagonista di Giorni e nuvole, di recente uscita nelle sale e, in questi giorni, al cineteatro “Odeon” di Reggio Calabria. Manager genovese, cotitolare di un’impresa costruttrice di barche, paga con l’espulsione la sua troppo umana renitenza alle leggi del mercato: quando l’azienda decide di ottimizzare il profitto attraverso le consuete pratiche di produzione all’estero e tagli sul personale, il suo rifiuto equivale a una scomunica. Da quel giorno Michele il dottore diventa un disoccupato in cerca di lavoro e, man mano che passano i mesi, la sua domanda si restringe ad una professionalità sempre meno qualificata e adeguata al suo stile di vita precedente. Il dramma di una quotidianità sconvolta dall’imprevisto di un eufemismo, quale beffardamente è la realtà evocata dal termine “flessibilità”: un saltare di convenzioni e convinzioni – dalla cena con gli amici all’aspettativa di un viaggio post-laurea - che diventano di colpo impossibili da mantenere. Fino a che persino la relazione coniugale ne viene provata, se la stima sino a ieri si misurava, ma solo per sottinteso, in capacità di sostenere economicamente la famiglia come insieme di bisogni, dalla domestica ad un appartamento lussuoso.
Dopo le fortunate commedie Pane e tulipani (2000) e Agata e la tempesta (2003), il regista milanese Silvio Soldini torna al registro drammatico di Brucio nel vento (2001) con un’opera che mette ancora una volta insieme pubblico e critica, raccogliendo incassi record nel fine settimana e calorosi applausi alla kermesse romana, dove ha partecipato nella sezione “Premiere”. Apprezzamenti sono venuti anche dai festival di Londra e Toronto.
Si tratta di una storia ben congegnata e scritta (belli i dialoghi redatti a quattro mani da Doriana Leondeff, Flavio Piccolo, Federica Pontremoli e lo stesso regista) che, attraverso la vicenda particolare di Michele ed Elsa, ex-uomo d’affari lui, restauratrice a tempo perso lei (un’inedita coppia Albanese-Buy che si è dimostrata estremamente credibile e all’altezza), narra l’emergenza dell’essere precari dal punto di vista di chi lo diventa in età matura. Non esiste, infatti, solo la precarietà purtroppo scontata che segna nei giovani la lunghissima fase di incubazione tra formazione e ingresso stabile nel mondo del lavoro. C’è anche chi entra nel precariato in quel mezzo del cammino che non è più come per Dante il trentacinquesimo anno di vita, il che, oltre ad essere sul piano biologico una conquista della scienza, è - su quello sociale - un vizio capitale della filosofia liberista. Le leggi del mercato ridisegnano drasticamente le tappe evolutive e se c’è chi a quarant’anni non è mai diventato adulto, ovvero persona capace di provvedere autonomamente ai propri bisogni materiali e spirituali (pure quelli spirituali, si sa, hanno un prezzo!), c’è altresì chi, a cinquanta, si ritrova improvvisamente adolescente, messo al bando da un mercato del lavoro che non supporta e sopporta le buone coscienze.
Il film offre diversi livelli di lettura e quindi di denuncia del sistema: economica, affettiva, interiore. Perché ad entrare in crisi, uno alla volta ma rapidamente, sono i vari pezzi di Michele: l’imprenditore, poi l’amico, il padre, il marito, l’uomo morale giocato su più fronti dalla sua stessa eticità. Per questa via, Soldini smaschera la flessibilità professionale come incertezza generale del vivere e punta d’iceberg di quella diffusa precarietà esistenziale che è sostenuta da e insieme sostiene il mercato del lavoro.
La critica più forte va alla capacità che il precariato del lavoro ha di ingenerare una catena ininterrotta di disagi, che investono soprattutto la sfera relazionale e sentimentale dell’uomo Michele: il suo essere interlocutore e compagno degno di fiducia. E scommetterà ancora di esserlo sotto quel cielo affrescato, appena svelato dal restauro, in cui la madonna del Boniforti ispira a Michele ed Elsa, sul finale aperto del film, quella speranza del futuro che la prospettiva terrena non sembra più capace di generare.
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