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Redazionale


di Roberto Calabrò
07/06/2007 - Il caso Lombardo
di Roberto Calabrò*
Ci sono luoghi in cui la memoria svanisce. Uno di questi è Terrasini, in Sicilia. Un posto in cui le vicende di mafia scompaiono, inghiottite in un buco nero, come se non fossero mai accadute. Terrasini è vicino a Cinisi, altro luogo dell’oblio che per quasi un quarto di secolo ha tenuto nascosta la straordinaria vicenda di Peppino Impastato e del suo atroce assassinio commissionato da don Tano Badalamenti. In quel caso fu lo splendido film di Marco Tullio Giordana, “I cento passi”, a squarciare il velo del silenzio.
Adesso è un libro d’inchiesta a fare luce su un’altra storia dimenticata: quella del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, uno degli artefici della cattura di Totò Riina, suicidatosi nel cortile della caserma “Bonsignore” di Palermo il 4 marzo 1995. E anche in questo caso c’entra, ma per altri versi, il boss Badalamenti. Il volume si intitola “Uno sparo in caserma” (Città del Sole, 188 pagine, Euro 12). Lo firma la giornalista Daniela Pellicanò che, sulla scorta di documenti processuali, preziose testimonianze e trascrizioni di trasmissioni televisive dell’epoca, ha ricostruito gli ultimi giorni di vita del maresciallo.
Ma chi era Lombardo, quale è stato il suo ruolo nella lotta alla mafia e quale è il mistero che avvolge il suo suicidio? Il libro si apre sulle righe vergate dall’investigatore pochi minuti prima di spararsi all’interno della sua auto parcheggiata in caserma: “Mi sono ucciso per non dare soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e dei miei figli che sono tutta la mia vita”. Per quasi 15 anni Lombardo è stato il comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini, feudo mafioso di Badalamenti. Per la straordinaria conoscenza del territorio, la grande esperienza nella lotta a Cosa Nostra e per le indubbie capacità investigative, è molto stimato dai suoi superiori. E, dopo l’apporto fondamentale offerto nella cattura di Totò Riina, viene chiamato a far parte del Ros, il reparto operativo speciale dell’Arma.
Lombardo sa muoversi nella zona grigia che separa legalità e illegalità, ha un fiuto straordinario nell’aprire canali e trovare informazioni, sa leggere la complessa realtà siciliana, conosce le dinamiche sociali ed è in grado di interpretare i segni del linguaggio mafioso. Proprio per questo, quando si tratta di provare ad estradare in Italia Badalamenti, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti, è a lui che si rivolgono i suoi superiori.
E’ addirittura il giudice Paolo Borsellino a suggerire il nome di Lombardo in un incontro riservato con il colonnello Mori. E il maresciallo parte di buon grado per gli Stati Uniti. I viaggi americani sono due: il 10 ottobre e il 12 dicembre 1994. E risultano particolarmente fruttuosi: don Tano dichiara, alla sua maniera, di essere un capo mafia e mostra la propria disponibilità a collaborare con le autorità italiane che vogliono verificare le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta circa il coinvolgimento di Andreotti e di Cosa Nostra nell’omicidio del giornalista di “Op” Mino Pecorelli. Il boss nega che ci sia lo zampino della mafia nel caso Pecorelli, smentendo di fatto il “teorema Buscetta”, ma offre una sua futura collaborazione per la ricostruzione della vicenda. In quel momento la cosa che più gli preme è tornare in Italia per rientrare in gioco e vendicarsi dei corleonesi che gli hanno sterminato amici e familiari. Pone un’unica condizione: che sia il maresciallo Lombardo, di cui si fida ciecamente, ad occuparsi della sua protezione e del suo trasferimento in Italia.
E’a questo punto che nasce il “caso Lombardo”. E’ lo stesso maresciallo a dichiararlo nel suo testamento quando scrive: “…e concludo dicendo che la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Perché? Cosa succede nei tre mesi che separano la seconda missione americana dal giorno del suicidio?
Il 26 febbraio 1995 l’investigatore deve partire per gli Stati Uniti. E’ tutto organizzato: ha già ritirato in amministrazione l’anticipo necessario per il viaggio, ma la sera del 23 febbraio accade qualcosa di imprevisto. Alle 20.30 su Rai3 va in onda “Tempo Reale”, il programma di Michele Santoro. Si parla di mafia: in collegamento da Terrasini ci sono il sindaco della cittadina, Manlio Mele, e il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Durante la trasmissione Orlando accusa con veemenza il maresciallo Lombardo, senza mai nominarlo: “La mafia usa anche pezzi dello Stato. Io mi assumo la responsabilità quando dico che pezzi dello Stato a Terrasini stanno dalla parte della mafia”. E ancora: “Io sto formalmente chiedendo all’autorità giudiziaria di indagare sul comportamento del precedente responsabile della stazione dei Carabinieri di Terrasini”. Lombardo, non presente in trasmissione, non può difendersi dall’infamante accusa di essere un colluso. Ci prova il generale comandante dell’Arma, Luigi Federici, che chiama la redazione di “Tempo Reale”, ma Santoro non gli dà la linea.
Da lì in poi la situazione precipita. L’esposizione mediatica a cui è stato sottoposto l’investigatore con gli attacchi, risultati poi ingiustificati, di Orlando e Mele ha un effetto dirompente. Il maresciallo è “bruciato” sul fronte investigativo e le minacce di Cosa Nostra non si fanno attendere: qualche giorno dopo in una contrada nei pressi di Terrasini viene ritrovato il cadavere incaprettato di Francesco Brugnano. E’ uno degli informatori di Lombardo, una delle fonti con cui stava lavorando per arrivare alla cattura di Giovanni Brusca. E’ un segnale che l’investigatore decodifica immediatamente: sa bene di essere ormai “un morto che cammina”. Lo dirà lui stesso: “Il sospetto e la delegittimazione, in Sicilia, sono sempre stati l’anticamera della soppressione fisica”.
Lombardo si sente solo, anche perché dall’Arma arrivano segnali contrastanti: da un lato riceve rassicurazioni circa il fatto che la fiducia nei suoi confronti non è venuta meno, dall’altro gli viene data la notizia che non partirà per la terza missione americana. Nel frattempo don Tano Badalamenti fa sapere, tramite il suo legale, che non verrà in Italia. L’equazione è semplice: niente Lombardo, niente Badalamenti.
E’ questo il risultato a cui mirano gli autori occulti della delegittimazione del maresciallo? L’arrivo del padrino di Cinisi potrebbe mettere in moto un meccanismo dagli esiti imprevisti e imprevedibili? Le dichiarazioni di Badalamenti potrebbero pregiudicare l’impianto dei procedimenti in corso a Palermo e Perugia, entrambi basati sul cosiddetto “teorema Buscetta”?
Questi sono soltanto alcuni scenari che Daniela Pellicanò lascia aperti nel suo libro.
“Le risposte da dare a questo caso sono ancora molte”, sostiene l’autrice. “L’unica certezza a cui sono giunta, ascoltando i racconti di familiari e colleghi, e studiando con cura i documenti, è che il maresciallo Lombardo non era un colluso, come si è voluto far credere in un determinato momento. Al contrario era un uomo onesto che credeva nel proprio lavoro e che ha vissuto la lotta alla mafia con passione, fino al punto di sacrificare la propria vita. Un uomo leale stritolato da un meccanismo perverso, vittima di un gioco più grande di lui”.
*L’autore lavora come freelance per L’espresso, Repubblica.it e Diario.
La recensione è stata scritta in esclusiva per quiCalabria
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